Sangue d’aprile
Aprile 1478
È il 26 aprile 1478, siamo nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, a Firenze, dove si sta celebrando una messa. Da più di quarant’anni, cioè dal trionfale ritorno di Cosimo il Vecchio dall’esilio nel 1434 e la vittoria sulla fazione degli Albizi la città – nominalmente una repubblica – è governata de facto dai soli membri della famiglia Medici: dapprima appunto con Cosimo, e dopo la sua morte per un breve periodo col figlio Piero detto il Gottoso che nonostante la veloce dipartita è riuscito abilmente ad assicurare la trasmissione del potere, ormai dinastico, al giovanissimo figlio Lorenzo (detto il Magnifico), affiancato dall’ancor più giovane Giuliano.
L’ascesa dei Medici
In questi decenni i Medici si sono adoprati, pur mantenendo le apparenze della continuità costituzionale, a svuotare quasi completamente di significato le istituzioni della repubblica fiorentina, che se non è sempre stata “popolare” ha sempre avuto una rappresentanza abbastanza larga almeno tra le famiglie più importanti, che si dividevano e contendevano quasi pacificamente poltrone (dentro il palazzo) e clientele (fuori dal palazzo).
Con i Medici, grazie al controllo capillare delle elezioni (affidate a sorteggi non esattamente casuali) e alla continua creazione e conferma di nuove “balìe”, cioè organismi dotati di poteri straordinari, l’oligarchia è divenuta una sorta di principato. Se quasi niente è cambiato sul piano formale e istituzionale, se i nomi dei gonfalonieri, dei capitani e dei priori continuano a essere sorteggiati fra le famiglie più in vista (di antica tradizione o nuova fama), tutti allo stesso tempo sanno bene che niente viene deciso senza l’approvazione di Lorenzo.
I nemici
Se Cosimo era riuscito, però, a mantenere un consenso non puramente basato sull’intimidazione e sulla prepotenza, rinunciando a cancellare completamente l’influenza politica delle altre famiglie, il controllo di Lorenzo su ogni aspetto della vita fiorentina si fa davvero totale e asfissiante, a cominciare dalla macchina della propaganda, con l’esibizione dei simboli medicei in ogni occasione di festività o evento pubblico, e al tempo stesso con il ridimensionamento di ogni ambizione altrui. Comprensibile, quindi, un certo astio da parte di molte famiglie. Fra queste, in particolare, si segnalano i Pazzi, che hanno da poco subito uno sgarbo particolarmente bruciante: facendo votare una legge con valore retroattivo sulle eredità, Lorenzo ha evitato che il patrimonio dei Pazzi si ampliasse in misura ritenuta pericolosa.
Ma l’intrigo politico è più vasto, e tra i nemici di Lorenzo c’è anche e soprattutto il papa, da tempo in collisione con gli interessi dei Medici e della città di Firenze, affiancato dal re di Napoli, Ferrante I, dalla città di Siena e dal duca d’Urbino Federico da Montefeltro. È in questi ambienti che nasce la congiura detta “dei Pazzi”, che sta per trovare il suo svolgimento proprio durante la messa in Duomo al segnale convenuto, ovvero all’ite missa est.
La congiura dei Pazzi: protagonisti e luoghi
Se volessimo seguire gli avvenimenti di quella giornata avvalendoci di una mappa dei luoghi di Firenze, potremmo partire da via del Proconsolo, all’angolo con borgo Albizi, dove la famiglia dei Pazzi ha il suo palazzo; palazzo così imponente che potrebbe essere stato una delle cause dell’ostilità con la famiglia Medici, che come abbiamo visto mal sopportava la competizione anche in queste cose. Qui, poche ore prima del delitto, possiamo immaginarci l’atmosfera carica di attesa e nervosismo. I cospiratori, Francesco e il suo anziano zio Jacopo, hanno già rimandato un paio di volte l’occasione per eseguire il loro piano, che avrebbe dovuto compiersi la sera prima durante un banchetto ma è andato a monte a causa dell’assenza di una delle vittime predestinate, il giovane Giuliano, indisposto (un precedente tentativo avrebbe dovuto svolgersi nella splendida residenza fuori città della famiglia Pazzi, villa La Loggia in via Bolognese).
Francesco de’ Pazzi non desidera ulteriori indugi e stavolta per assicurarsi la presenza di Giuliano si reca direttamente, insieme al complice Bernardo Bandini Baroncelli, a prenderlo per accompagnarlo in Duomo presso la sua residenza, il sontuoso palazzo Medici (oggi Medici-Riccardi) voluto da Cosimo il Vecchio per consacrare la sua autorità e costruito dall’architetto Michelozzo. Il palazzo si trova a pochi metri dal Duomo, in via Larga (oggi via Cavour), ma durante il tragitto i due cospiratori trovano il tempo di un moto d’affetto e abbracciano Giuliano, in realtà per assicurarsi che sotto la veste non porti la corazza.
Proprio Francesco e Bernardo hanno il compito di uccidere il ragazzo, mentre Lorenzo era inizialmente destinato a cadere sotto i colpi di un sicario professionista, Giovanni Battista da Montesecco. Costui all’ultimo momento si è tirato indietro, forse per timore del sacrilegio, così l’omicidio viene commissionato a due preti a quanto pare meno scrupolosi, Stefano da Bagnone e Antonio Maffei. A Jacopo de’ Pazzi come vedremo è assegnato un altro compito, ovvero quello di incitare a cavallo la folla cittadina subito dopo il delitto. Il tutto mentre fuori dalla città truppe mercenarie sono pronte a intervenire.
Al momento del segnale Giuliano si trova vicino alla porta della cattedrale dal lato di via dei Servi, dove viene aggredito e ucciso con molteplici pugnalate da Francesco e Bernardo, con una tale violenza che Francesco nella concitazione finisce per ferire se stesso, seriamente, a una gamba. Lorenzo sta passeggiando una trentina di metri più lontano, vicino all’altare, sotto la famosa cupola del Brunelleschi, e non può vedere niente. Viene avvicinato dai due preti che però falliscono il primo agguato riuscendo solo a ferirlo leggermente al collo. Aiutato e protetto dai suoi compagni (uno dei quali, Francesco Nori, ferito mortalmente), riesce con alcuni di loro, a fuggire e trovare riparo dentro la Sagrestia Nuova (lato nord della Cattedrale), chiudendo le pesantissime porte di bronzo, con i dodici pannelli realizzati da Luca della Robbia e sovrastate da una lunetta sempre di Luca della Robbia raffigurante la Resurrezione.
Il gruppo, di cui fa parte il celebre umanista Poliziano, rimane diversi minuti, forse un’ora, all’interno della sagrestia – prestando probabilmente poca attenzione agli intarsi realizzati da Giuliano e Benedetto da Maiano su disegni di Brunelleschi e Antonio del Pollaiolo – in silenzio nel tentativo di captare qualcosa di quel che avviene all’esterno. A un certo punto qualcuno comincia a bussare, ma non si capisce se si tratta di amici o nemici. La situazione viene sbloccata da un amico di Lorenzo che salendo sulla stretta scala a chiocciola che porta alla galleria dell’organo riesce a vedere l’interno della chiesa, ormai vuota tranne che per il cadavere di Giuliano. Coloro che stanno bussando sono persone fidate, il gruppo finalmente si decide a uscire e a correre per trovare riparo nel vicino palazzo di famiglia.
Nel frattempo, un altro esponente della congiura, l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati con una trentina di uomini si reca in sordina a Palazzo Vecchio (la sede della signoria), nel tentativo di occuparlo dall’interno. Maldestramente effettuata, la prova di forza si conclude con l’arcivescovo preso prigioniero dal Gonfaloniere in persona e i suoi uomini isolati all’interno della cancelleria del palazzo, nel mentre le guardie ormai avvertite si precipitano a soccorrere il governo e suonano le campane.
Un altro manipolo di armati a cavallo, guidati da Jacopo de’ Pazzi, si precipita stavolta con strepito verso il Palazzo della Signoria, cercando di coinvolgere i cittadini al grido di “Popolo e libertà”. Vuole la leggenda – ovviamente di origine medicea – che il popolo alla finestra reagisca col grido “Palle! Palle!” (le palle dello stemma dei Medici) alle sue invocazioni alla rivolta, ma è lecito pensare che in realtà la maggior parte dei cittadini non faccia che attendere di potersi schierare col vincitore, non essendoci notizia di grandi scontri armati per le vie della città.
Una volta arrivati gli uomini di Jacopo a Palazzo Vecchio, essendo fallito il primo tentativo di Salviati, avviene un tafferuglio, con gli uomini dei Pazzi che cercano di entrare e liberare gli altri congiurati, e le guardie del palazzo che cercano di respingerli lanciando pietre dall’alto. È probabilmente in questa fase che le sorti della congiura, finora incerte, si decidono. Col passare del tempo, infatti, e con le truppe accampate fuori città che non si fanno vedere (forse spaventate dal suono delle campane), Jacopo de’ Pazzi comincia a vedere la propria situazione come sempre più disperata, finché non si decide a fuggire. Da questo momento tutta la città è contro di lui.
Vendetta ed epilogo
Quel giorno stesso, nel pomeriggio, il corpo di Francesco de’ Pazzi verrà appeso alle finestre di Palazzo Vecchio. Insieme a lui l’arcivescovo Francesco (in una esecuzione particolarmente degradante per un ecclesiastico del suo ruolo) col fratello Jacopo Salviati e altri congiurati. Secondo la testimonianza del Poliziano prima di morire l’arcivescovo, in un impeto di odio, trova il tempo di mordere al petto Francesco restando attaccato con i denti alla sua mammella. Nei giorni successivi la vendetta, implacabile e feroce, miete decine di vittime, forse un centinaio, i cui corpi e le cui membra vengono sistematicamente esibite al disprezzo del popolo.
Particolarmente macabra la fine che il destino riserva al capofamiglia, il vecchio Jacopo de’ Pazzi. Verrà catturato a Castagno, presso San Godenzo, e picchiato selvaggiamente. Arrivato a Firenze già incapace di camminare, e dopo essere stato interrogato viene appeso alla stessa finestra dalla quale era stato impiccato Francesco. Per uno straordinario favore, forse per intercessione di Bianca dei Medici, sua parente acquisita, viene poi sepolto con ancora la corda al collo nella sua cappella di famiglia, la famosa cappella dei Pazzi progettata da Brunelleschi, presso la basilica di Santa Croce. Circa un mese più tardi una banda di ragazzi lo estrae dalla tomba e lo trascina per il cappio per le vie cittadine fino al portone del suo palazzo. Qui cercano di usarlo come ariete per sfondare la porta. Poi lo trascinano ancora fino al ponte Rubaconte (oggi ponte alle Grazie) e lo buttano in Arno. Un paio di giorni dopo viene ancora tirato fuori dall’acqua, vicino Brozzi, appeso a un salice e percosso nuovamente, poi ributtato in Arno per finire di decomporsi in mare aperto.
Il pericolo per Lorenzo non è in realtà ancora passato, i nemici esterni, col papa in prima fila, vogliono la sua testa, ma alla fine il regime mediceo ne uscirà rafforzato, sebbene sempre appoggiato sulle fragili basi della repressione violenta di ogni opposizione e sul carisma personale di Lorenzo, come si vedrà dopo la sua morte, nel 1492.