Negroni: un classico fiorentino
Buon Gin, Vermouth freddo e Bitter quanto basta.
Ogni bevanda e ogni cocktail hanno bisogno di una storia: quella del Negroni è stata raccontata e documentata con piglio storico investigativo da Luca Picchi, barman fiorentino col pallino della storia, in un libro originale e pieno di immagini.
In questa storia ci sono due protagonisti: il cosmopolita avventuriero conte Camillo Negroni e il barman Fosco Scarselli, sullo sfondo della Firenze mondana dell’inizio del secolo scorso. Fosco Scarselli lavorava da Casoni, all’angolo di via Tornabuoni, ma parlando di Caffè storici scomparsi a Firenze si apre un mondo.C’era il caffè bohémien dei macchiaioli, il Caffè Michelangelo, e quello più esclusivo e più rimpianto, Doney.
Oggi rimangono Gilli, il più antico che risale al 1733, Paszkowsky, nato come birreria nel 1904 e Rivoire, aperto da una famiglia di cioccolatieri piemontesi nel 1872.
In questi luoghi frequentati da una clientela già internazionale si diffonde la moda di bere all’americana, ovvero di miscelare i liquori per ottenere i primi cocktail, come l’Americano, mix di Vermouth e Bitter, che andava per la maggiore.
“In un giorno imprecisato fra il 1917 e il 1920 il conte chiese a Fosco di “irrobustire” il suo americano” e Camillo scelse il Gin londinese per mantenere il colore, ottenere vigore (alcolico!) e per un gusto secco.
Dal primo “un americano alla maniera del conte Negroni” a “un Negroni” è bastato pochissimo a questo cocktail per affermarsi. La sua grande diffusione e la sua paternità italiana sono testimoniate fra l’altro dalla sua comparsa nel film La primavera romana della Signora Stone e per essere ordinato da James Bond nel racconto Risiko, ambientato a Venezia.
Così dai fasti della Firenze futurista, all’Italia del boom economico il Negroni e le sue ormai innumerevoli varianti (o twist) sono un altro prezioso tassello di made in Italy che resiste al passare delle mode. (S.B)